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Situazioni di crisi, le parole da non dire

L’importanza delle parole è stato più di una volta argomento di discussione mediatica nell’ultimo periodo, soprattutto nei riguardi della gestione di un momento delicato come quello attuale. In una situazione così peculiare come l’odierna, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha ribadito la necessità dell’utilizzo di un lessico corretto per comunicare la situazione di crisi che ci stiamo trovando a fronteggiare, e, in collaborazione con Ifrc (International Federation of Red Cross e Red Crescent Societies) e Unesco, ha redatto una vera e propria guida alla comunicazione, rivolta a tutte le istituzioni governative e ai media per prevenire e fronteggiare un’eventuale necessità di informazione e fraintendimento sociale. 

Uno degli errori comunicativi che si tende a fare, in senso generale, è l’imprudente e scorretta associazione tra elemento di rischio o disturbo e definiti enti, attori sociali, luoghi o etnie, come può esser stato per alcune delle prime definizioni del COVID-19 il quale è passato attraverso diverse espressioni quali ‘virus cinese’ o ‘virus di Wuhan’ o ‘virus asiatico’. 

Per quanto sia utile spiegarsi e spiegare la situazione di crisi in contro alla quale ci si sta dirigendo, la dove è prevista, o che si sta vivendo, la dove è repentina, non sempre esporre a pieno le proprie teorie è corretto, soprattutto non valutando o non potendo valutare la capacità di analisi e background culturale dell’utente in ascolto al messaggio. Che sia una crisi economica, aziendale, o sociale e mondiale come quella che stiamo vivendo, non si auspica una voluta disinformazione, ma più una oculata e centellinata informazione che permetta, senza essere fagocitati dal ritmo dei notiziari e dai vari input che ci vengono trasmessi, di riflettere sulle parole scelte e utilizzate per la comunicazione di un definito evento. Anche la scelta di enfatizzare gli sforzi per trovare una soluzione alla crisi, un tamponamento momentaneo (es:”al momento non abbiamo riscontri, ma stiamo impiegando le nostre migliori risorse per risolvere quel o questo problema”), e quindi far comunque trasparire un grande sforzo nel massimo delle proprie capacità per un quasi nullo risultato, può aumentare la paura e dare l’impressione che non siamo in grado di arrestare il perpetrare della condizione di disagio nella quale ci si trova. 

Il linguaggio necessario da impiegare in un momento definibile “di crisi”, che sia familiare, sociale o lavorativo, deve essere un linguaggio semplice e privo di termini tecnici (per quanto possibile), con informazioni accurate e specifiche in relazione cosa può fare l’utente (dipendente dell’azienda, civile, parente) per agevolare al meglio le azioni di recupero. 

Nel caso del COVID-19, prima di raggiungere una, diciamo, corretta capacità di informazione in merito all’avvenimento, la grande capacità mediatica che contraddistingue il nostro secolo aveva già inondato gli utenti con innumerevoli messaggi, indipendentemente dalla fonte, conditi di termini come ‘epidemia’ ‘pandemia’ ‘contagio’ ‘morte’ ‘isolamento’ ‘aggressivo’; questa saturazione ha evidentemente provocato una completa confusione di massa e, coloro i quali si son trovati a dover gestire l’attuale crisi, hanno dovuto attuare un doppio lavoro di ricerca per trovare le migliori parole utili in grado placare gli animi e spiegare le parole precedentemente utilizzate per poi trovarne di nuove per spiegare al meglio le situazioni attuali e come promuovere una risoluzione. 

Per quanto la semiologia non sia dottrina alla portata di tutti, non per la sua complicatezza, quanto più per le condizioni che possono permetterci di apprenderla senza andare a intraprendere un percorso di studi indicato, l’importanza delle parole è alla base della comunicazione mondiale.

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