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Senza campagne advertising non esiste il digital marketing

Nel 2019 gli spazi digitali, siti, social media ecc, sono diventati affollati, affollatissimi. Quasi 5 miliardi di utenti, tra aziende e persone, su internet e quasi 4 solo sui social media agli inizi del 2019, secondo il Global Digital Report di We are Social.

Ma qui vogliamo soffermarci su chi occupa lo spazio digitale per “aumentare il fatturato” e per guadagnarci qualcosa, quindi di aziende o freelance.

Se è vero che è stata, più o meno, sdoganata la presenza digitale, in generale chi decide di andare online per trarne un ritorno economico digerisce ancora poco la maniera in cui dovrebbe starci. Per la mancanza di basi e approccio culturale al “nuovo marketing” e, ancora, perché molte aziende pensano di poter trasferire sui “nuovi” media quello che hanno “sempre” fatto o, ancora, che l’approcciabilità e la democraticità del web permettano a tutti di dominarlo.

Sempre secondo We are Social nel 2018 solo il 22% delle pagine Facebook ha investito in campagne advertising, cosa che, se sei un’azienda e non lo fai significa automaticamente dichiarare la tua morte digitale. L’Internet advertising tende infatti ancora a essere, in particolare in Italia, una prerogativa dei grandi player del mercato.

La tendenza generale è considerare i social e anche i siti come qualcosa di “simpatico”, grazioso, talvolta di obbligatorio, sui quali approdare per moda e da cui pensare di poter trarre vantaggio in automatico, senza sforzo. Ecco perché spesso la domanda che ci facciamo noi che lavoriamo nel settore è se si è effettivamente capito cosa significhino e quale sia il ruolo effettivo delle piattaforme digitali.


Marketing online e digital advertising

Il primo ruolo, che è bene che le aziende capiscano, è che i social ormai sono diventati dei paid media. E non lo dico io, ma tutti i grandi del marketing online, tra cui il papà di Facebook Mark Zuckerberg.

Siamo in tanti, gli spazi per pubblicare e per essere trovati sono sempre di meno, bisogna sgomitare e sì, bisogna pagare. Capire questo forse porterebbe le aziende a occupare questi spazi come si deve, a portare del valore aggiunto a una platea sempre più esigente, informata e annoiata delle solite cose. E magari anche a domandarsi se quello che vendono sia effettivamente di valore e, ancora, capire se sia il caso o meno di stare sui social. Altro spazio occupato, e male, non ci serve proprio.

Come capire tutto questo? Facendo quello che le aziende dovrebbero fare da sempre: ragionare sul valore che possono trasferire, sul perché scegliere loro, sui problemi che risolve il loro prodotto / servizio, che aspettative soddisfa, come comunicarlo e promuoverlo.

Se quindi è vero che senza social le aziende possono vivere, è anche vero che senza un piano di advertising e di pubblicità l’azienda è morta.

E adesso non è nemmeno più solo questione di saperci stare, di alternare buona creatività e advertising, dando ormai la precedenza al secondo.

Stare sui social a livello aziendale significa, ormai, fare marketing senza far vedere che si sta facendo. Non solo posizionarsi ma prendere posizione, non vendere qualcosa ma alimentare idee, sogni.  E non solo perché la concorrenza è alta, ma perché qui fuori c’è un’emergenza culturale che ha poco a che vedere con il marketing.

È molto più difficile, la strada è lunga e chi non l’ha mai intrapresa dovrebbe ben pensare se decidere di perdere tempo per fare qualcosa male. Sarebbe meglio non farla, a questo punto, e cogliere l’occasione per ridiscutere il suo ruolo sul mercato: l’importante però è essere consapevoli che il digitale ormai ne occupa una fetta importante. Se non sarete voi a starci ce ne saranno molti altri che invece sceglieranno di farlo. All’inizio non sapranno bene come, ma poi impareranno.

Per capire dove stiamo andando però forse è meglio fare qualche passo indietro.


Storia ed evoluzione del digital marketing…

Le pubblicità online non sono nuove. Nel 1993 è stato possibile cliccare sul primo banner online. Si è partiti con l’approccio push, quando ancora non si capiva come fare, a mettere in evidenza i post, a farli mangiare l’uno con l’altro. Se poi sono stati fatti dei passi in avanti, con la costruzione di campagne integrate, i parametri utm, i pixel di tracciamento, ora sembra essere tornati indietro.

Si va avanti lottando contro il negativo utilizzo che si fa, ormai, dei social, con il ratto di questi da parte della classe politica, il trionfo dell’autoreferenzialità. E con il totale stravolgimento del motivo per cui sono nati: connettere le persone in modo naturale, svagarsi, validare opinioni.

La sensazione adesso, vedendo il marketing inesistente delle pagine aziendali, è quella di essersi dimenticati di come allacciare i rapporti umani. Eppure basterebbe partire dalla vecchia arte di “ascoltare”, stupirsi e apprezzare la preziosità che strumenti come i social ci mettono a disposizione. Un “materiale” umano fondamentale. E ora l’uomo è tornato al centro dei processi di acquisto.

Non sembra un caso allora che adesso ci si appelli sempre di più al Cluetrain Manifesto, la guida del marketing moderno, per rispondere a questa emergenza. I mercati sono conversazioni teorizzava nel 2000, quando il nuovo scenario si stava appena affacciando. L’uomo al centro e il linguaggio disintermediato: tra aziende e persone non c’è più una distanza e tutto prende forma attraverso il modo di comunicare, di porsi e l’esperienza che noi facciamo vivere al nostro pubblico.

Il digital advertising non è fare i botti o cercare l’effetto wow. Significa guardarsi dentro e capire, in generale, cosa vogliamo offrire alle persone: metterle nella condizione non di scegliere il meno peggio, ma quello che fa davvero per loro.

Proviamo a pensare che il modo in cui facciamo marketing e a chi lo dirigiamo è una nostra responsabilità non solo come professionisti, ma come persone.

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